Una tendenza molto presente negli ultimi anni di ricerca sull’intelligenza animale e che, fortunatamente, sta iniziando a scemare anche grazie al sorgere di un nuovo pensiero postumanista e una diversa consapevolezza e capacità critica da parte dell’opinione pubblica, sopravvivendo solo nei corridoi accademici neobehavioristi, è collegata al riconoscimento della mente animale solo quando paragonata a quella umana, con particolare riferimento a quei contesti performativi dove gli umani esibiscono “abilità” mentali standardizzate come far di conto o eseguire compiti. Articoli scientifici e divulgativi tipici di questa via di pensiero tipicamente comprendono l’espressione “come l’uomo”, che va a sottendere che quella tale specie e quel tale animale mostrano un’intelligenza paragonabile a quella dell’uomo. Ora, a parte rilevare l’ovvio antropomorfismo di cui spesso la scienza neobehaviorista si veste, per poi arrogantemente accusare gli altri di antropomorfismo, anche da un punto scientifico moderno questo modo di fare ricerca è piuttosto discutibile, sia sotto un profilo di metodo che di etica animale.
Oltre a questo, tali ricerche apportano confusione più che conoscenza, in quanto si mischiano i concetti di addestrabilità con quelli di intelligenza, che invece appartengono a due campi di studio diversi, spesso antitetici da un punto di vista etico. Ed ecco che si possono vedere test di intelligenza o presunta tale, in cui un cane, un cavallo, un delfino o un gorilla, hanno il bizzarro compito di riconoscere codici, numeri, lettere dell’alfabeto, parole, eseguire esercizi, svolgere operazioni di calcolo ed il raggiungimento del compito indicherebbe la loro abilità di raggiungere l’umano nelle stesse abilità mentali. Il tutto magari supportato dalla presenza dell’amato e onnipresente premio alimentare (peggio ancora se in presenza del clicker) che renderebbe tutto più positivo ed eticamente accettabile, ma che nella realtà ha un impatto sulla qualità di esperienza dell’animale coinvolto nel test ed in definitiva sulla sua qualità di vita, oltre che proprio su quella intelligenza che si vuole studiare creando un enorme bias di natura addestrologica.
Paragonare le intelligenze tra loro, sia quelle di specie che soggettive, spesso messe su piani gerachico-performativi, rappresenta sempre un esercizio molto pericoloso e che porta con se una notevole dose di fraintendimenti e di impatti sui diritti e sul benessere degli animali coinvolti, sia direttamente in questi test pseudoscientifici, sia indirettamente come conclusioni antropomorfiche, poi riportate nelle applicazioni pratiche. Quindi più che trasformare laboratori di ricerca e aule accademiche in centri cinofili o maneggi di equitazione, si dovrebbe andare a comprendere l’intelligenza animale prima di tutto riferita a se stessa, riferita a quella specie, riferita a quel soggetto e non riferita ai processi di addestramento, educazione e manipolazione della mente animale. Ed in effetti in questo processo, il riconoscimento della soggettività deve avvenire sempre prima del riconoscimento dell’intelligenza, proprio per evitare tutti quegli addestromorfismi attraverso i quali un cane o un cavallo esprimono intelligenze solo quando raggiungono o quasi raggiungono risultati “come li raggiungerebbe l’umano”, solo quando imparano le tabelline o solo quando sanno fare le belle statuine.
Francesco De Giorgio, Learning Animals
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